Un’intervista con Gianfranco Angelucci, il discepolo che nella celebrazione del trentennale dalla scomparsa e nell’anniversario di 4 films, rievoca i momenti più salienti del cinema insieme a Fellini.
Non si può celebrare un maestro di tale mole intellettiva come Federico Fellini se non si ravvisano i tratti caratteristici della sua vita. Il gigante, il magnifico, l’F.F. per eccellenza tutti nomi che si addicono al più grande regista di tutti i tempi. Era nato a Rimini 103 anni fà: il 20 gennaio 1920. Oggi in questo abbraccio mondiale con le testate Associazione Nazionale Carabinieri Messina; Allora! Sidney Australia; GIA New York; Sabato Italiano di Radio Hofstra University di New York con la conduttrice giornalista Cav. Josephine Maietta e NewsMessina Sicilia, vogliamo festeggiare il trentennale dalla scomparsa e l’anniversario nella loro data di 4 film, I vitelloni, 8 e mezzo e La nave va. La sua ineguagliabile moglie, attrice e ballerina, come lui la definiva, era Giulietta Masina. Si sposano il 30 ottobre 1943, con cerimonia privata a casa di una zia, uniti per sempre. Molte, tuttavia, le sue amanti fino alla morte del loro unico figlio neonato. Gaiezza da “vitellone”, ma non solo. Sogno e realtà, desideri e ossessioni, realismo incantato. Un percorso artistico che ha fatto conquistare a Fellini cinque premi Oscar: La strada, Le notti di Cabiria, Otto e mezzo, Amarcord e, nel 1993, anche uno alla carriera. Quest’ultimo premio a Los Angeles, all’Academy, con un grazie pubblico alla moglie Giulietta Masina. Da Rimini a Roma e il ricordo di tanti amici e personaggi, Maria Piave, protagonista di un leggendario episodio, in cui un principe attraversando la città con un invito a servirsi di lei. A Roma, le parole stradette migliaia “Motore! Azione! Stop!”. Tante scene, Luci del varietà, diretto nel 1950 con Alberto Lattuada, in Lo Sceicco Bianco in cui compare l’attore e amico Alberto Sordi. In Grand Hotel, quei momenti surreali attraggono il giovane Federico, favola del film Amarcord. Tantissime le donne, parte imprescindibile di ogni storia diretta dal regista. Anita Ekberg a Magali Noel (La Gradisca), Anouk Aimée, Maria Antonietta Beluzzi (La Tabaccaia), Germaine Greer, Anita Magnani, Claudia Cardinale, Sandra Milo e l’amante ufficiale del Maestro per 36 anni, Anna Giovannini. L’insostituibile sempre Giulietta Masina, sua moglie. Gelsomina, protagonista di “La Strada” con il grande attore Anthony Quinn. Poi l’ultimo film girato insieme, Ginger e Fred, omaggio al loro legame eterno. Il nome della moglie, in primis, nei titoli di testa della pellicola. Federico Fellini, emblema del cinema italiano nel mondo, muore pochi mesi dopo quell’Oscar alla carriera, nel 1993 e l’anno successivo lo seguirà Giulietta. Vengono sepolti a Rimini insieme al figlio. L’amicizia con l’attore Marcello Mastroianni non si chiude solo tra le scene. Marcello o Snaporaz, come lo chiama lui, è il protagonista di cinque film e un documentario. Il più famoso Marcello è quello con Anita Ekberg, nella Fontana di Trevi in La Dolce Vita. Scrivere, pertanto, sul colosso più imponente del cinema vuol dire non escludere, anzi camminare insieme a chi lo ha sostenuto e tanto amato, il suo discepolo braccio destro, Gianfranco Angelucci. È da una comparazione dell’espressione “Intervista”, Film di Federico Fellini, Premio Speciale a Cannes, primo Premio al Festival di Mosca, che parte il colloquio altisonante con Gianfranco Angelucci, regista, sceneggiatore, scrittore, giornalista, docente. Sembra di essere a colloquio non con Gianfranco, ma con la sua guida, tale è “la corrispondenza d’amorosi sensi”, come diceva Foscolo, ancora oggi, dopo tanti anni dalla morte del re del cinema. Si mostra subito affabile, tenero, come un caro amico. Ciò che colpisce è l’umiltà, che lo identifica eccezionale conduttore e maestro di interviste. Emozionante per chi ascolta, avvia orgoglioso il suo flashback, un fiume di parole, reminiscenze del passato, scolpite nella mente, mai dimenticate. Fiero dei suoi ricordi, il notissimo sceneggiatore, inizia a raccontare di aver conosciuto Federico durante l’ultimo anno d’Università, quando studiava a Bologna Lettere. Era andato a chiedere ad un suo docente, famosissimo critico e storico d’arte, il Prof. Francesco Arcangeli, una tesi in Storia dell’arte. Il docente lo deviò da un pittore minore del seicento e lo indirizzò verso Federico Fellini, dandogli una tesi sul “Satyricon”. Aveva visto “I clown”, film uscito nel ‘69 a Venezia e ne era rimasto folgorato, anche perché Fellini non era soltanto un regista, ma il più grande artista figurativo del ‘900. Angelucci dopo la stesura della sua tesi per maggiori chiarimenti, aveva trovato il solito amico critico che gli aveva preparato il bigliettino di presentazione per incontrare il “grande”. Coraggiosamente era andato ad incontrarlo a Roma. Fellini stava per terminare l’edizione di “I Clown”, in fase edizione. Il suo stato maggiore si trovava in uno sfarzoso Hotel di Roma, l’Hotel Plaza, in via del Corso. Era un hotel di tradizione, lussuoso, con la bussola girevole. Era andato a trovarlo. Al ragazzo di ventidue anni gli sembrava di incontrare una specie di mito vivente. Il portiere dell’albergo lo aveva guardato con supponenza, pensando che stesse mentendo. Quando Gianfranco aveva dichiarato di avere un appuntamento con Federico Fellini, il portiere, dubitando, alzò il telefono. Poco dopo cambiò espressione; ribadì che sarebbero venuti a prenderlo per incontrare colui che sarebbe diventato il suo mentore. Da li a poco Angelucci si accorse che tra le pitture i quadri e gli arazzi c’era una scena di “Otto e mezzo”. Si tratta di un film, in cui il produttore arrivò a Chianciano per persuadere il regista a cominciare il film. Lui ritardò, perchè in crisi ispirativa, scena che Angelucci adorava. La hall dell’albergo rifatta su quella dell’hotel Plaza, con un leone, in fondo la scalinata di marmo, gli affreschi, gli arazzi, i lampadari, avevano un sapore confidenziale. Tutto, come attraversare la soglia, come Alice, come lo specchio…Mentre era in attesa di Federico gli venne incontro la segretaria di dizione del maestro, che lo condusse al cospetto di Fellini”. Gianfranco, impressionato dal personaggio, anche perché fisicamente imponente, sorridente, affascinante, fascinoso. Lo fu ancora di più, quando confidenzialmente venne invitato a pranzo. Il “genio”, rimarcando il buon piatto di tortellini in brodo, lo ospitò. Il giovane accettò felice ed incredulo. Dopo pranzo in un salottino del Plaza cominciarono a parlare e Fellini, che lo aveva preso in simpatia, lo ascoltava. Era il Gennaio del ‘70 e da poco c’era stata in America la prima occupazione universitaria, a Berkeley (S. Francisco). Era lì che era iniziata la ribellione, il movimento studentesco. Federico gli spiegò di avere scelto il titolo Satyricon, perché racconta di giovani, nonostante fosse un’opera del I secolo dopo Cristo nell’era dello scrittore latino Petronio. Fu in quell’occasione che Fellini diede già i primi spunti di valori intoccabili. Gianfranco, ragazzo di provincia, non avrebbe mai pensato di trovarsi un giorno di fronte ad un idolo sacro del cinema. Alla fine il regista lo invitò a terminare la tesi ed a recarsi da lui dopo averla completata. Intanto si era laureato a pieni voti, eseguendo un lavoro magistrale con la prima tesi d’Italia sul cinema. Fu così che poi andò a Cinecittà, poichè desiderava intraprendere la strada del cinema. Con fermezza, Angelucci, si recò al teatro cinque di Cinecittà, dove Federico aveva cominciato le riprese del film “Roma”. Il regista gli propose un piccolo contratto da produttore con una ricerca sul cambiamento della sessualità nel ‘68. D’altronde il film, spiega Angelucci, traduceva anche la chiusura delle “case chiuse”. Era un paragone tra i ragazzi del dopoguerra, che avevano rapporti con donne mercenarie e quelle del sessantotto che erano più moderne, più spigliate e libere di poter amare. Dopo il primo reporter-sceneggiatura Gianfranco si ritrovò alla corte del personaggio leggendario, senza mai lasciarlo. Inizialmente era diventato il suo ghost- writer, perché c’era tanto da scrivere e lui era in cerca di collaborazione. Riconobbe subito nel giovane la similitudine con il suo modo di esprimersi. Come una carta assorbente, con l’occhio furbo e curioso di chi vuol imparare, Gianfranco assimilava in silenzio, tanto che divenne per sempre l’ombra di Fellini. Frequentandolo quotidianamente in un sodalizio, fatto di consuetudini, complicità, la loro nel tempo si era trasformata in sincera amicizia. Il genio dell’arte cinematografica era il “puer eternus” che lo aveva scelto come suo sceneggiatore per intervista. Angelucci sottolinea che Fellini non era un insegnante che impartiva lezioni; era un disco, un compagno di banco, gigante intelligente. Comprendeva chi si imbevesse della sua arte. Gianfranco nel colloquio si sofferma un attimo, per ribadire di dovere tutto a Fellini. Mai avrebbe pensato di dover stare accanto ad un colosso del genere: all’epoca l’uno ventidue anni e l’altro cinquanta, già con tre Oscar. Per di più la cultura di Angelucci, scolastica, universitaria di quel periodo non poteva competere con un personaggio rivoluzionario come il “Virgilio” del cinema. Era “un motu proprio”, vedere qualsiasi cosa, inquadrarla, riconoscere la sua poliedricità. Era girare mille facce colorate, con una visione totalmente diversa da tutti gli altri…le letture, i films, i giudizi, le persone che giungevano da ogni parte. Era come stare nell’Olimpo. Certo, a Cinecittà passava il mondo, le teste coronate, passavano politici, registi americani… Era come vivere alla corte del Re Sole con la qualifica indefinita di grande vicinanza al personaggio. Era lì che Angelucci si è formato, giorno dopo giorno, per 25 anni di stretto rapporto professionale, modellandosi alla sua maniera di vivere e concepire la vita. Avendo rivoluzionato il cinema, come dicono in America, la prima metà del ‘900 spetta a Charlie Chaplin, che ha aperto il mondo cinematografico, la seconda metà a Federico Fellini, colui che lo ha fatto crescere. Federico, dopo i primi due Oscar, “La strada” e “La notte di Cabiria”, si dedicò a “La dolce vita”, con Marcello Mastroianni ed Anita Ekberg, che spalancò un mondo; un tipo di film senza trama, associata alle seguenze, come i sogni con la visione onirica dei racconti. Era un regista che parlava di sè stesso, tramite Marcello, del suo rapporto con la città, la cultura, le persone, le donne, con la propria confusione. Il film successivo che era “Otto e mezzo” richiamava “Una grande confusione”. Era presente l’introspezione del genio, senza nascondersi, del suo rapporto matrimoniale. Diceva di Giulietta di non ricordarsi neanche quando si erano sposati. Tale era il rapporto inscindibile! Erano due ragazzi, quando si erano uniti in matrimonio: ventidue e ventitré anni. Sposati durante la guerra, il loro rapporto era indivisibile. Federico non poteva neanche immaginare di essere lasciato da Giulietta, come sembrava essere decisa dopo Otto e mezzo. Per lui il loro legame era indissolubile. Legati non solo dal figlio perso, ma anche dall’incontro, determinato da coincidenze che gli facevano comprendere un destino di un rapporto antico, quasi voluto dal fato. Lei era stata accolta, bambina, a Roma da una zia che non aveva figli, ereditiera del Calzaturificio di Varese. Aveva studiato presso le suore Orsoline, frequentando il liceo classico. Il suo sogno era di fare l’attrice. Era stata chiamata all’Eiar per interpretare le storie umoristiche scritte da Federico, mondano giornalista. Innamorati e sposati nel giro di pochi mesi, ci sono tanti segreti che uniscono la coppia in un patto decisamente sacrale. Quando il film “La strada” vinse l’Oscar nel ‘54, venne dirottata nell’empireo dello star system internazionale, insignita in tutte le parti del mondo. All’uscita dalla sala più grande di Londra, dove la regina Elisabetta aveva voluto che fosse proiettato il film, furono accolti da due ali immense di folla, che continuava a scandire ‘Jasmine! Jasmine! La Gelsomina, protagonista del film, era ora encomiata e inneggiata come una regina. Sembrava una favola, come l’incontro con un’aristocratica che si tolse una collana di lapislazzuli per donarla a Jasmine. Storia d’amore, ma anche di tormento. Federico riuscì come un equilibrista a fare recitare nello stesso film la moglie e Sandra Milo, sua perenne amante. L’amante eterna, quella che non abbandono mai, sostiene Angelucci, fu Anna Giovannini. Che cosa aveva amato di lei Fellini? Era una donna materna, d’altri tempi. Profumava di una sessualità dalle linee più morbide e prorompente femminilità, meno minacciosa di quella intravista nelle sue paure dell’adolescenza. Per quel che riguarda la figura di Federico fumettista è visibile nel suo film quarto Oscar, “Amarcord”, concepito sul piano pittorico. Fellini ha diversi periodi nella sua epopea cinematografica: il realismo magico, che va dai “Vitelloni”, a “Le notti di Cabiria”, in cui si inventa un realismo favolistico che incanta le persone. Fa comprendere che dietro l’uomo c’è una spiritualità potentissima; il secondo momento è quello della psicanalisi. Il libro dei miei sogni” è la raccolta dei disegni, dove Fellini rappresenta i ricordi dei suoi sogni in immagini figurate, immagini dei suoi films. Negli anni ’50 la sua àncora, Ernst Bernhard, analista junghiano, avente fama di dotto, fece sì che Fellini, dal momento dell’incontro con lui, attribuisse all’attività onirica, costruttrice di molteplici immagini, una superiorità dei sogni rispetto alla stessa realtà. Bernhard gli aveva fatto recepire che, perlustrando il suo inconscio avrebbe compreso sè stesso e avrebbe toccato attraverso le immagini il cuore del pubblico. Ecco ciò che faceva Federico: trasformava in immagini reali i sogni. Un terzo momento fu quello che lo legò, come lo definiva Federico, all”inconosciuto, come lo chiamava lui, al mistero, ai maghi. Soleva dire: “Fra noi e la sconosciutezza c’è un foglio di carta velina, attraverso la quale noi sentiamo il respiro di quelli che stanno di là e, se si crea qualche smagliatura, arrivano immagini inequivocabili”. Da quando aveva scoperto la psicanalisi aveva compulsato i sogni che fanno comprendere la personalità. Federico, a volte, passando per bugiardo, oggi dimostra che, nessuno meglio di lui ha raccontato una verità assoluta. Pensando al colore, il primo film parte con un episodio del Boccaccio ‘70, ma il vero film a colori è stato “Giulietta degli spiriti”, dedicato totalmente all’inconscio, una ricerca pittorica, mai più vista dal cinema. Tutti i suoi films sono affreschi: “Casanova”, “Satyricon”, “Amarcord”, “La città delle donne”. Storie di un grande regista che si esprime sinceramente. Gianfranco Angelucci, sceneggiatore e regista di qualità scrive un romanzo Federico F., dove addirittura immagina di entrare nel suo corpo. Angelucci si rammarica di averlo visto morire come uno qualunque. Gli è stato vicino fino agli ultimi istanti, con una Giulietta ormai malata, che festeggiava i 50 anni di matrimonio pregando con il rosario, accanto a lui che giaceva morente in una camera asettica del Policlinico Umberto I di Roma. L’astro e gigante del cinema, l’uomo che aveva avuto tutto dalla vita, unico regista al mondo con cinque premi Oscar, se ne andava per sempre. Il suo attore preferito fu Marcello Mastroianni, l’alter ego di Federico, la sua immagine. In Ginger e Fred, film del 1986, Marcello indossa addirittura il suo cappello e recita con la moglie. Quando la Loren e Mastroianni lo avevano presentato all’Oscar, Fellini, modesto, disse: “Dovrei avere la voce di Placido Domingo per ringraziare tutti quelli che mi hanno fatto arrivare a questo punto, ma ringrazio solo la mia attrice, mia moglie Giulietta”. A lei che nascondeva le lacrime insistette: “Smetti di piangere”. Alla sua morte Angelucci, viene chiamato dalla sorella di Fellini, Maddalena. Viene incaricato dal Sindaco di Rimini, per dirigere una Fondazione in onore dell’incomparabile regista. Gianfranco ha coinvolto tutti i personaggi più vicini al cinema, come Tonino Guerra, Ettore Scola, Danilo Donati e molti altri. Per i primi tre anni ha raccolto tanto materiale su di lui. Da qui nascerà a Rimini un famoso museo dedicato a Fellini. Gianfranco è anche autore di un’opera di immensa mole, “Glossario felliniano: 50 voci per raccontare Federico Fellini, il genio italiano del cinema”. L’anarchico Fellini, apolitico, fondatore della settima arte, amava la verità. Ciò lo tramanda ai giovani. È anche quello che suggerisce Gianfranco Angelucci ai giovani, ovvero di essere creatori della verità. Prendere spunto da Manzoni, che suggeriva le regole, perchè un racconto diventi opera d’arte. Legato agli italoamericani e all’America, dove per la prima volta nell’81 è sbarcato, come Colombo in illo tempore. Proferisce che gli italiani hanno contributo non meno degli altri popoli allo sviluppo di una terra, il cui progresso è cinquant’anni avanti rispetto a tutti gli altri paesi del mondo. La voce inarrestabile dello scenografo e regista Gianfranco Angelucci, geniale impresario di luci ed ombre con la macchina da presa, è ulteriormente conosciuta non solo come prosecutore delle orme dell’astro mondiale, ma perché la giornalista americana e leader della trasmissione “Sabato italiano”, Cav. Josephine Buscaglia Maietta, ha ripetutamente rievocato la maestria di Angelucci, tenace sceneggiatore e regista Felliniano. È grazie a Josephine, che su Radio Hofstra University di New York e di conseguenza in tutti i paesi del mondo dove la trasmissione è ascoltata, si è manifestata, la sensibilità dell’uomo ombra di Fellini. Gianfranco Angelucci ha speso gli anni migliori della sua vita per stare sempre vicino al suo amico-mito e sembra essere il figlio desiderato. L’America, sostiene Angelucci, per la sua accoglienza ha costituito anche per gli italiani un’opportunità. È per tale motivo che gli italiani ne sono sinceramente grati, tuttavia non devono dimenticare le proprie origini. Nel 2000 Gianfranco aveva cercato di creare in America una Fondazione gemella. E’ stato membro del Direttivo della Commissione Fulbright per gli scambi culturali fra l’Italia e gli Stati Uniti. L’intervista del Prof. Regista Gianfranco Angelucci si conclude con un ringraziamento a coloro che hanno riconosciuto a Fellini la sua grandezza. L’epilogo finale va ai connazionali, che devono all’America la supremazia di aver offerto agli italiani in America il riscatto e le occasioni economiche e sociali e civili per elevare il nome dell’Italia nel mondo.
È così che Fellini, come dall’ultimo libro “La vita e altri imprevisti”, di Gianfranco Angelucci, rivive tra il suo pubblico, lui l’immortale, l’eterno regista dal cuore d’oro.